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Alcune considerazioni sulla tecnica chitarristica

Da piu' di 30 anni tengo concerti con una certa frequenza in 4 continenti;  questo, oltre al piacere in se',  mi ha dato l'opportunita' di conoscere ed apprezzare i punti di vista di colleghi di tutto il mondo, dalla scuola cinese a quelle giapponesi, americane ed europee.

Ci sono, come prevedibile, molti diversi punti di vista, sia sulla tecnica vera e propria, (l'impostazione, il tipo di tocco, la lunghezza delle unghie ecc.), sia sulla generale  "visione" dello strumento.

Non tutti portano a risultati ugualmente apprezzabili… ci sono alcune tecniche oggettivamente peggiori di altre,  (quelle che risultano in un suono sporco, fuori controllo o creano tensioni che risultano in dolori alla schiena o tendiniti), ma ignorando quelle, rimangono a mio parere diversi approcci alla tecnica abbastanza  diversi che, pur essendo tutti validi, rispecchiano una diversa "visione" generale dello strumento.

Come esistono diversi modi di "vedere" lo strumento, così' ci sono diversi tipi di impostazione e di tecnica.

Direi che si possono dividere in due grandi famiglie:

1  La visione della chitarra come un pianoforte, che mira alla uniformità' dei suoni, alla precisione dei passaggi, alla velocità', alla pulizia.

2 La visione della chitarra come una voce,  che privilegia l'uso dei colori, delle sfumature timbriche, del controllo e uso delle dinamiche ecc.

La n. 1 vuole una MD stabile, che non cambia angolo di attacco, si sposta poco e in modo deciso, per poter ottenere sempre un bel suono omogeneo e concentrarsi sulla precisione dei passaggi.

(Le chitarre lattice braced, quelle che usano carbonio ecc. sono adatte al N.1 in quanto suonano forte e hanno poche sfumature creando già' di per se' l'effetto pianoforte.)

La n.2 richiede  la capacita' di creare diversi tipi di attacco di suono:  la MD deve imparare a  controllare il rilassamento, la tensione, l'angolo di attacco e il punto di attacco in modo da poter creare sfumature dinamiche e timbriche quella mutevolezza quasi come le labbra di una persona che parla e canta

Chi mi conosce avrà già' capito che uso e insegno la n.2

Pur ammirando la precisione e la pulizia di suono della n.1 trovo molto più' appagante l'uso dei colori e delle dinamiche che oltre a tutto, sono la caratteristica e il fascino principale della chitarra.

Dopo un concerto riuscito, il commento che mi sento fare più' spesso (e che mi fa più' piacere) e' che  "faccio parlare la chitarra"

Ho cercato di capire come faccio a creare questa impressione (così' da poterla insegnare)

Si tratta di questo: faccio un uso discreto ma continuo di variazioni timbriche/dinamiche/agogiche, proprio come fa una voce quando parla.

Un uso discreto: raramente faccio una sezione al ponticello e ripetizione alla tastiera….troppo schematico.

Raramente faccio un cambio di timbro plateale: in generale accompagno le intenzioni del fraseggio con sfumature di colore e di volume che mi vengono spontanee e che creano appunto questo effetto.

E così' tratto anche  il rubato.

Anche di quello faccio uso discreto ma costante, sempre al servizio della comprensibilità' della frase, del tipo di significato (feeling) che devo comunicare.

Non mi piacciono i  rubati plateali: non mi sentirete andare a tempo e improvvisamente fermarmi vibrando con l'aria ispirata su una nota…questo non e' proprio parte del mio gusto estetico. Meglio un rubato leggero funzionale alla pronuncia delle frasi.

Un buon esercizio per esercitare l'elasticità' del fraseggio senza esagerare e' quello di mettere il metronomo e suonare rubato, entrando e uscendo dal ritmo a volontà'.

Credo che un altro elemento importante per la qualità' della esecuzione e l'effetto "chitarra che parla" sia la sincerità'.

Lo scopo del suonare dovrebbe essere (secondo il tipo di musica)  quello di raccontare una storia, o creare un clima, insomma di coinvolgere l'ascoltatore e creare un effetto estetico.

L'attenzione dell'ascoltatore dovrebbe andare sulla musica, non sull'interprete.

A volte, davanti a un certo tipo di pubblico,  ripaga il fatto di attirare l'attenzione su di se', fare smorfie esagerate, rubati estenuanti, atteggiamenti ammiccanti, ma qui si entra nel campo della integrità' artistica, e questo e' un campo privato di cui ogni artista e' responsabile.

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Martedì, 17 Settembre 2013 09:36

Come vivere felici facendo il concertista

Ho scritto l'articolo che segue circa 20 anni fa, ed è stato già pubblicato su GuitArt, ma credo sia ancora attuale, in particolare nei suoi aspetti, diciamo così, più filosofici.

Negli ultimi anni il livello tecnico si è alzato moltissimo e ho sentito, in giro per il mondo, un esercito di giovani chitarristi dalla tecnica veramente brillante e di una precisione impensabile solo 30 anni fa.
Questa considerazione vale anche per gli altri strumenti, infatti, ascoltando le registrazioni di concerti dal vivo dei grandi pianisti o altri interpreti degli anni '40 o '50 si rimane stupiti dalla quantità di imperfezioni o stonature rispetto agli standard di oggi... ma che poesia!

Ascoltando le vecchie registrazioni dei Maestri del passato ho notato che le imperfezioni non tolgono forza all'esecuzione, né mettono in discussione la statura artistica dell'interprete: risultano solo come curiosità.
Ne deriva che la capacità di comunicare il Senso della musica ha più a che vedere con categorie spirituali (intenzione, personalità, creatività) che con aspetti meccanici.
Naturalmente una tecnica strumentale sviluppata è indispensabile per rendere possibile la realizzazione di una idea, ma una esecuzione perfetta non deve essere il fine ultimo di un interprete.

Se oggi lo standard tecnico è aumentato, non credo che l'Umanità abbia cambiato il modo di percepire il feeling, lo "Shining" che alcuni interpreti hanno, la "terza traccia" in una registrazione , come la definisce un amico musicista: credo quindi che carattere, personalità, comunicativa e sincerità siano ancora gli ingredienti più importanti per avere successo.
Prova ne sia che di tutti i giovani brillanti che si propongono oggi, solo quelli che hanno anche le qualità che ho appena citato riescono ad imporsi e a durare sulle scene internazionali.
Se ci pensate, i chitarristi di successo hanno tutti, vi piaccia o no, un carattere riconoscibile, un suono, un tipo di fraseggio, un qualcosa che vi fa dire: "E' lui!"
Per questo motivo, senza sminuire l'importanza della cura, la precisione e il controllo sull'esecuzione, credo sia il caso che lo studente si interroghi da subito sul suo gusto personale e lo coltivi come la qualità che fa veramente la differenza fra un bravo chitarrista e un vero interprete.

Nella mia esperienza di insegnante e di concertista ho avuto occasione di notare che molti studenti, ma anche molti miei colleghi, hanno dei problemi riguardo a come studiare e come prepararsi per un concerto.

Alla base di queste difficoltà ho rilevato normalmente idee confuse di ogni genere sia riguardo allo studio sia all'atto stesso del dare concerti.
A volte mi sono reso conto, con stupore, che per alcuni era poco chiaro lo scopo stesso di far musica.

Dal momento che preparare e dare concerti è per me fonte di piacere, vorrei far conoscere i punti di vista e i criteri che uso, nella speranza che possano aiutare qualcuno a togliere quella cappa pesante d'insicurezza e di paure che troppo spesso avviliscono lo splendido mestiere di musicista.

ARTE E' COMUNICAZIONE
A volte i lunghi anni di Conservatorio, la compagnia di musicisti avviliti e inaciditi, l'ambiente poco incoraggiante o il clima competitivo fanno dimenticare lo scopo per cui hai cominciato a dedicare il tuo tempo e i tuoi sforzi allo studio dello strumento.
Ti ricordi quando hai iniziato? Le prime melodie o arpeggi che riuscivi a creare? Non ti sembrava magico poter produrre dei suoni e combinarli insieme?
Qual è la molla che ti ha fatto decidere di dedicarti alla musica?

Come tutte le arti, la musica è comunicazione.
Non si comunicano concetti (anche se si possono aggiungere, come in un pezzo vocale con un testo): normalmente la musica comunica emozioni, o meglio, crea emozioni nell'ascoltatore tramite la comunicazione di una forma, ritmo, melodia, struttura armonica o formale...quello che c'è o che l'ascoltatore "trova" nel pezzo che sta suonando.
Si suona quindi per creare dei mondi, delle atmosfere capaci di produrre un impatto emotivo in noi stessi, primi fruitori della nostra stessa opera e negli ascoltatori.
Anche se la musica classica più di altri tipi di musica ha creato dei linguaggi molto complessi e articolati, come la musica polifonica o dodecafonica, resta il fatto che alla base del fare e ascoltare musica resta l'impatto emotivo, quel "ché " non razionale (perché è a livello superiore, estetico) che riempie una persona di stupore, che la "muove", che in qualche modo la coinvolge e la "cambia", anche se solo momentaneamente.
Naturalmente ci sono le spiegazioni tecniche, stilistiche e filologiche, i perché e i percome è stato un concerto bello (o brutto), ma voglio sottolineare che queste
considerazioni vengono dopo, sono razionalizzazioni e sono di ordine più basso del semplice percepire il diretto impatto di un'opera artistica.

Con questo non voglio promuovere l'ignoranza: un interprete dovrebbe conoscere i "perché e i percome" ma certamente deve mettere in primo piano la sua capacità di trovare un mondo da comunicare ed esercitarsi ad essere in grado di crearlo, producendo così un impatto emotivo in chi l'ascolta.

COME PREPARARE UN CONCERTO
Spesso sento affermazioni del tipo:"devo studiare sei ore al giorno tutti i giorni per essere in grado di fare un concerto" oppure: "Per preparare questo pezzo ci vogliono sei mesi".
Certamente il tempo per preparare un brano varia secondo il livello e l'abilità del musicista, ma basare la propria preparazione sul tempo passato a studiare è un errore.
Ho diviso anni fa l'appartamento con un chitarrista tedesco che studiava sei ore tutti i giorni.
Quel ragazzo ripeteva continuamente lo stesso pezzo dall'inizio alla fine per delle ore senza miglioramenti.
Alla sera naturalmente si sentiva molto depresso (e anch'io) ma "aveva fatto le sue sei ore."

IL TEMPO E' UNA VARIABILE
Il giovane tedesco era depresso perché non aveva ottenuto nessun prodotto. Lui non sapeva cosa doveva ottenere: il suo prodotto era quindi "sei ore di lavoro"
Una buona regola è quella di mettersi a studiare sempre con un'idea chiara di quello che si vuole ottenere in quella giornata.
Può essere la lettura di un brano, la diteggiatura, il superamento di un singolo passaggio, imparare a memoria un pezzo, qualsiasi cosa, ma bisogna sapere cosa.
Questo dà l'incomparabile vantaggio di sapere quando si ha finito di studiare.

ORGANIZZARSI IL LAVORO
Io non sono uno studioso accanito: se non ho concerti immediati mi occupo degli altri miei interessi e suono per puro piacere, ma quando ho concerti mi organizzo.
Se devo preparare un pezzo nuovo, divido il lavoro in due fasi

La prima (A) è ovviamente LA PREPARAZIONE DEL BRANO e si divide in quattro parti:
1) La prima è la lettura.
Leggo il pezzo varie volte con lo scopo di farmi un'idea della strada da seguire. Non lo diteggio finché non ho un'idea abbastanza chiara della sua struttura e di come lo voglio presentare.
Lo analizzo e lo leggo con e senza strumento.
Quando mi sento familiare col pezzo e ho individuato la direzione da seguire (un colore, un'emozione generale, una "strada che ha un cuore", come insegnava Ghiglia citando Castaneda), passo alla seconda fase.
2) La diteggiatura. Questa, naturalmente, è fatta in funzione degli effetti timbrici, agogici e dinamici che voglio creare.
La scrivo, ben sapendo che sarà modificata in seguito e mi familiarizzo con i passaggi tecnicamente più difficili.
3) A questo punto studio il brano tecnicamente, cioè lo imparo più o meno a memoria, lo "metto nelle dita".
In questa fase a volte scopro che dovrò cambiare qualche diteggiatura perché avrò cambiato idea, lavorando, su qualche aspetto dell'interpretazione.

4) Non esistono pezzi "tutti difficili", ma certamente ci può essere qualche passaggio difficile. E' importante individuarlo esattamente: a volte una posizione inconsueta, un salto, compromettono un'intera sezione del pezzo. Spesso si sbaglia sempre il solito passaggio: è bene dedicare una fase dello studio ad individuare e risolvere i passaggi difficili.
A volte mi è capitato di avere difficoltà a superare un passaggio della mano sinistra finché non ho capito che il vero problema era nella destra!
A volte, analizzando i movimenti di un passaggio "difficile" mi sono reso conto che il vero problema era subito PRIMA del passaggio stesso!

A questo punto il pezzo è tecnicamente pronto: è diteggiato, lo so a memoria, lo conosco dal punto di vista formale ecc.
Si chiude quindi la parte tecnica della preparazione e si apre quella dell'esecuzione.

(B) ESECUZIONE
Questa è una fase per me importante perché a volte è trascurata: si tratta di esercitare la propria capacità di creare lo stato d'animo giusto per eseguire un pezzo in modo convincente.
Ti consiglio di provare.
Non devi confondere questi due momenti dello studio: nel primo sei uno studente e prepari il pezzo, ti fai le tue idee a riguardo, lo analizzi e ti eserciti, nella seconda sei un concertista e lavori con lo scopo di produrre un impatto emotivo con la tua esecuzione.
Nella prima fase della preparazione la tua attenzione è dentro il pezzo, nei suoi particolari tecnici e formali, nella seconda è totalmente rivolta all'affinare la tua capacità di "dire" quella musica in modo coinvolgente, come un attore che recita una parte. (Tu sei un interprete, non dimenticarlo).
Se in fase di studio ti fermi continuamente a ogni problema e lo isoli per risolverlo, ora suoni dall'inizio alla fine, non ti fermi mai: lavori per costruirti la continuità dell'esecuzione.
Se in questa fase scopri che alcuni passaggi non sono chiari o nascono altri problemi, prendi nota, li risolverai in un altro momento ma non mescolare queste due fasi: ora suoni come se fossi in concerto, ti fai il fiato e sarebbe un errore fermarsi per una sbavatura, non lo faresti in concerto, vero?
E' molto importante mettersi nello stato d'animo esatto di quando si è in pubblico e suonare tutto di fila con l'intenzione di creare qualcosa di bello.
Se lo fai davvero riuscirai a comunicare con il tavolino del tuo studio, figurati con un pubblico vero!

Un ultimo appunto: quelle persone che hanno comprato il biglietto del tuo concerto vogliono provare delle emozioni: suona per loro, non per gli "esperti".
Anche i critici o i tuoi colleghi vogliono essere toccati dalla tua musica.
Quelli che stanno in prima fila a contare gli errori sono ridotti male: non riescono più a partecipare della musica e sono da compatire.
Non trattenerti nel fraseggio per paura di fare una nota sbagliata: quello che arriva è la tua poesia, quando suoni, suona, e al diavolo gli errori!
Ancora due osservazioni:
nonostante le migliori intenzioni a volte un concerto non va come dovrebbe: non ti abbattere, è successo a tutti e ti assicuro che non ha rovinato la carriera di nessuno!
Usa questo "incidente" per imparare di più, per evitarlo in futuro: chi vuole cambiare e migliorare deve essere disposto anche a fare qualche "scivolone" ogni tanto (ma non troppi però...)

L'ultimo consiglio per "vivere felici": non criticare i tuoi colleghi.
Anche se non condividi le loro scelte o il loro gusto, non essere distruttivo.
Se ti accorgi di criticare con astio o cattiveria l'esecuzione di un collega sappi che hai un problema personale TU.
Lascia l'odio isterico ai critici inveleniti e pensa piuttosto a creare tu qualcosa che ti piace veramente. Se lo fai sul serio non ti risentirai per quello che fanno gli altri.

Spero che questo ti sia utile: suonare è un piacere: è una delle manifestazioni più alte dell'uomo.
Anche se sei uno studente o hai delle difficoltà, tu hai deciso di fare della musica, ti dedichi a questo, pochi lo fanno.
Non dimenticarti che sei un artista.

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Domenica, 14 Luglio 2013 00:50

Il declino dell'estro

Tempo fa partecipando alla giuria di un concorso internazionale sono stato colpito da un fatto inspiegabile: il concorrente che poi ha vinto, pur essendo tecnicamente impeccabile, brillante e musicalmente corretto, pur avendo anche un bel suono… non mi piaceva.
Lo ascoltavo ammirato ma nello stesso tempo osservavo che per qualche ragione misteriosa non riusciva a coinvolgermi.
Per lungo tempo mi sono chiesto le ragioni di questo fenomeno finche’ ho colto alcuni indizi da uno studente americano uno cinese e uno francese.
Il ritmo 
Recentemente in una tournée in Asia ho incontrato degli impeccabili chitarristi cinesi che preparavano i pezzi facendo un uso massiccio del metronomo e in un’altra occasione anche uno studente americano che faceva la stessa cosa.
Per uso massiccio intendo dire che non mettevano il metronomo alla battuta, per rispettare il tempo generale ma lasciando ai sedicesimi qualche spazio per uno slancio o un timido rubato, niente affatto: il click cadeva inesorabile sull’ ottavo o addirittura il sedicesimo, costringendo lo studente a piazzare tutte le note nella loro brava casella e azzerando cosi’ ogni estro o possibile tentazione di dare una forma e direzione alle quartine per creare un fraseggio personale.
Lo studente in questo modo e sistematicamente avviliva la sua fantasia e faceva un lavoro direi da operaio piuttosto che da artista.
Avete mai visto dei ballerini professionisti ballare?
Non mettono quasi mai il piede a terra esattamente sul battere del tempo, (questo lo fanno gli orsi ballerini), loro veleggiano anticipando o ritardando ma dando sempre l’impressione di sapere esattamente dove si trova il battere.
E’ proprio questa serie di impercettibili varianti che fanno lo stile di un interprete: il bravo interprete sa esattamente dove e’ la griglia del tempo, ma la usa, ci gioca, a volte la stira un po’ ci gira intorno e non ne e’ mai effetto.
Questo concetto vale per tutti i generi musicali: vale addirittura anche per i percussionisti.
Mi ricordo che negli anni ’80, quando era esplosa la moda delle percussioni elettroniche (molto piu’ economiche dei batteristi veri), dovevano risolvere il problema della meccanicita’ e freddezza del computer. Avevano fatto uno studio sui grandi batteristi per imitare il loro stile.
Questo stile consisteva in personali imperfezioni: il grande batterista tal dei tali anticipava tot millisecondi il charleston sul rullante, ritardava un tot la cassa ecc.
Per concludere: andare perfettamente a ritmo non e’ artistico, infatti una qualsiasi macchina lo puo’ fare, mentre solo un artista puo’ creare un fraseggio.
L’interpretazione
L’interpretazione di un brano non consiste solo nell’agogica ma anche nei colori, la dinamica, lo staccato-legato e insomma tutto l’insieme di artifici che convogliano la visione del pezzo da parte dell’interprete.
Il secondo indizio sul motivo per cui non mi convinceva la impeccabile esecuzione del bravo chitarrista di cui sto parlando l’ho colto parlando con studenti di una scuola francese.
Questi ragazzi studiavano l’ interpretazioni nei minimi dettagli e la ripetevano identica migliaia di volte.
Per esempio: crescendo, respiro, piano subito.
Bello, si’, ma ripetendolo alla nausea veniva perfetto ma privo di vita.
Era un cibo precotto e riscaldato, non cucinato li per li.
Il concertista eseguiva il suo compito ma senza il minimo spazio per un estro momentaneo, una intuizione, un momento di grazia… il pezzo scorreva inesorable sui suoi binari predefiniti, impeccabile e freddo.
La vita esiste solo nel presente. Le esecuzioni memorabili che emozionano sono create nel presente, non sono la ripetizione automatica di una creazione del passato.
Il bravo interprete studia molto bene il pezzo formalmente e tecnicamente per poter essere capace di eseguirlo liberamente in concerto e solo cosi’, fatta salva l’idea generale del pezzo, potra’ “dirlo” in maniera sempre nuova e coinvolgente.

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Martedì, 17 Settembre 2013 09:53

Improvvisazione

Sono andato a sentire il concerto di Chick Corea e Stefano Bollani.
Visto che in passato ho avuto il piacere di suonare con entrambi, ho cenato insieme a loro.
Ebbene, mi hanno detto che non solo non avevano provato mai, ma non avevano nemmeno fatto un programma!
Infatti al concerto si sono seduti al piano e hanno cominciato ad inventare, suggerendo a turno idee che venivano immediatamente riprese ed elaborate creando continue forme concrete che si evolvevano in una atmosfera di pura genialita' creativa.
Che senso di liberta', che gioia di creare!
Certo che per fare una cosa del genere senza mai cedere a chiche' o a luoghi comuni (come spesso si ascolta nelle improvvisazioni), ci vuole un dominio dello strumento e un talento creativo gigantesco, ma quello che mi ha colpito e' stato l'idea che ci fosse qualcosa di irrinunciabile e di universale in quell' atteggiamento.

Anche un interprete classico dovrebbe avere questo atteggiamento di liberta' creativa, dovrebbe avere sempre spazio per un estro momentaneo; il controllo non dovrebbe essere mai cosi' stretto da inibire qualsiasi variante suggerita da un momento di grazia.
Solo cosi', ricreando ogni volta il brano nel presente, per quella particolare atmosfera, per quel pubblico, per quella acustica, con quello stato d'animo, si puo' creare una vera performance che lasci il segno, e non una ripetizione piu' o meno perfetta dello stesso percorso studiato a tavolino.
Certo, cosi' si rischia, ma solo cosi' si puo' creare qualcosa che sia un evento artistico e non lo svolgimento di un compitino.
Solo cosi' si puo' suonare lo stesso pezzo per anni senza mai farsi prendere dalla noia
Solo cosi' si puo' davvero suscitare emozione estetica e non la mera ammirazione per una performance impeccabile,

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Domenica, 22 Settembre 2013 16:28

Il rispetto del testo

Il rispetto del testo

Ho avuto recentemente una discussione con alcuni bravi colleghi sul tema dell'aderenza al testo.
Chi affermava che il testo andava rispettato totalmente e nei singoli dettagli e chi era propenso a una certa elasticita'.
Personalmente penso che non si possa dare una risposta dogmatica a questa domanda.
Insomma direi che la misura in cui si deve rispettare il testo dipende da vari fattori che cerchero' di delineare.
Innanzitutto questo problema si presenta solo per la musica dell'800 e '900 (nelle musiche precedenti c'e' il fattore della prassi esecutiva, come risolvere gli abbellimenti, come realizzare le cadenze, quando suonare le ineguaglianze.. tutte cose che non stanno scritte nel testo)

Poi bisogna vedere se i segni dinamici e le varie indicazioni sono dell'autore o del revisore, quindi sapere bene le caratteristiche dell'edizione che si sta usando.

Infatti non avrebbe senso rispettare religiosamente dei segni messi li' da un musicista diverso dall'autore.

Prima di prendersi qualche liberta' bisogna vedere soprattutto quanto i segni originali sono funzionali al pezzo o sono una sorta di consigli non necessariamente vincolanti.
Mi ricordo anni fa quando ero presidente e solista della Guitar Symphonietta diretta da Leo Brouwer avevo chiesto a Leo come realizzare la percussione nell' Elogio de la danza"
Leo senza neanche voltarsi ha detto: "non ti piace? Levala!"
Un'altra volta ricordo sempre Leo criticare l'eccessivo rispetto per un testo (legato a scarsa iniziativa e fantasia)
Per esempio direi che si debbano rispettare i segni di un autore vivente ma anche qui distinguerei il genere di musica: su un pezzo di sapore popolare o semplice non mi darei la pena di osservare puntigliosamente ogni cosa.
Insomma, si deve trattare un testo come si tratterebbe un essere umano: bisogna comprenderlo, volergli bene e sapere quando gradisce essere trattato con le molle o quando preferisce farsi affettuosamente strapazzare un po'. A volte il troppo rispetto e sussiego risulta alla fine freddezza e anche scortesia.

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Domenica, 22 Settembre 2013 15:03

Dorothy Dorow

Sono molto fiero di aver potuto collaborare con una grande artista come Dorothy Dorow e le sono grato di avermi dato questa possibilita' all' inizio la mia attivita' artistica e professionale.

Ricordo quel periodo della mia vita (a cavallo tra gli anni '70 e '80), come uno dei momenti piu' ricchi ed entusiasmanti della mia carriera.
Di Dorothy ho ammirato, oltre alle celebrate doti vocali, (intonazione, estensione e tecnica) la straordinaria sicurezza di una artista che si e' misurata con i massimi esponenti della musica contemporanea mondiale.
Di Dorothy ricordo con piacere e nostalgia la leggerezza, il sottile umorismo sempre bonario e il carattere affettuoso e nello stesso tempo molto determinato.
Non ho mai sentito Dorothy criticare nessuno e l'unica volta che ha inarcato un sopracciglio nei miei confronti e' stato quando, all'inizio di un concerto mi sono permesso di accennare un accordo sulla tonalita' del brano, cosa del tutto inutile per il piu' formidabile orecchio assoluto che io abbia mai conosciuto.

Flavio Cucchi

 

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da "Andres Segovia a Siena" (Quaderni dell'Accademia Chigiana XLVI 1994) EMULARE SEGOVIA (di FLAVIO CUCCHI)

Come tutti i grandi artisti, anche Segovia ha avuto legioni di imitatori. Gli stilemi Segoviani (l'elasticità inconfondibile del fraseggio, i colori caratteristici del suo suono, il particolare modo di concepire l'interpretazione), sono noti a tutti e hanno influenzato generazioni di chitarristi. Imitare un Grande è una forte tentazione, ma il rischio è quello di duplicarne le caratteristiche più esteriori rendendo vezzo superficiale ciò che era sincera forza interpretativa. Questo rischio è ancora più presente quando si cerca di imitare uno stile così decisamente personale come quello di Segovia. C'è tuttavia una qualità del Maestro che si può cercar di emulare senza cadere nell'imitazione: si tratta di un atteggiamento spirituale piuttosto che una serie di soluzioni tecnico-espressive, ed è la chiarezza e la forza con cui esprime il suo pensiero musicale. Segovia dà sempre l'impressione di non avere il minimo dubbio sulle sue scelte ed è questa serena certezza il carisma che per decenni ha fatto trattenere il respiro alle migliaia di persone che assistevano ai suoi concerti. Se c'è una lezione che ho imparato dal Maestro è stata questa: la chiarezza delle proprie intenzioni e la convinzione personale sono l'onda portante su cui viaggia il contenuto musicale, e senza questi elementi l'interprrtazione si svuota di vitalità e scade nell'accademia. Sono questi gli ingredienti che rendono un'interpretazione interessante o noiosa, e del resto si sente subito, (e si accende l'interesse), quando un interprete si prende responsabilità del proprio personale punto di vista e lo propone con autorevolezza. Segovia questo genere di certezza l'ha avuta al massimo grado, unita a quel particolare distacco del grande artista che non "deve" giustificare le proprie scelte musicali ma agisce spinto dalla motivazione più sublime: che gli "gusta" così. E questo è un lusso che solo i Grandi si possono permettere.

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